critica

______________________________________________

giancarlo

FANTINI

Giancarlo Fantini, tra ricordi di attimi e ritmi delle stagioni (Marta Lock, febbraio 2019)

L’arte figurativa spesso ci conduce all’interno delle nostre sensazioni più intime, quelle racchiuse nella memoria emotiva legata a luoghi che le hanno evocate la prima volta, e che ripercorrendole non possono fare a meno di riportarci in quegli stessi posti. L’artista di oggi riesce, attraverso la sua evidente sensibilità, a ricreare quella magia nelle sue opere.
Raccontare un’emozione non è impresa semplice, soprattutto se la strada artistica che si percorre è quella paesaggistica, perché dipingere la natura è forse alla base di quasi tutti gli inizi pittorici; la differenza però emerge quando dall’opera che si sta osservando sembra fuoriuscire una voce, una storia narrata che permette allo sguardo di seguire il filo del ricordo, della memoria che è scritto in maniera chiara davanti a sé. Giancarlo Fantini non descrive la natura, lui racconta frammenti di vita che possono essere i suoi come quelli di chiunque altro si sia emozionato davanti a un tramonto, alle foglie autunnali, alla spiaggia deserta, e lo fa in modo lieve, con una sensibilità fuori dal comune ponendo l’accento sulla connessione tra l’essere umano, solo nella sua interiorità, nel suo pensare, e la natura che lo avvolge e lo circonda come se volesse accompagnare il ritmo di quei pensieri morbidi, di quegli attimi indimenticabili che saranno per sempre impressi nelle pieghe della sua anima.
Allo stesso modo le stagioni sottolineano questo forte legame, questa correlazione tra momento meditativo e attimo invece più gioviale, più luminoso; predilige l’autunno, la notte, la solitudine della spiaggia dopo che i bagnanti se ne sono andati, le foglie sull’acqua. Sembra un inno alla serenità il suo impulso creativo, magari chissà, faticosamente raggiunta dopo le vicissitudini della vita, giungendo a quella fase di equilibrio in cui il ritmo lento, la riflessione e la calma sono prioritari rispetto alle rapide e ai vortici affrontati in altri momenti, in tempi passati in virtù dei quali comprendere e apprezzare maggiormente un senso nuovo, quello della rilassatezza e del raccoglimento, nello sguardo verso se stessi. Opere come La pausa ai bagni Vittoria non possono non riportare alla mente le lunghe estati dove tutto era possibile, dove tutto sembrava poter cambiare per sempre per tornare poi, dopo che gli ombrelloni venivano chiusi e la stagione volgeva al termine, a essere di nuovo uguale a prima ma rinnovato di un nuovo bagaglio di sapori, odori e ricordi indelebili. O come Rosso di sera, dove le tonalità rosate del cielo al tramonto sembrano voler accompagnare la mente a non dimenticare tutto ciò che è accaduto prima, davanti a quel lago, tutto ciò che ha condotto un lungo e caldo giorno verso la sua naturale fine che cederà a breve il passo alla notte. L’osservatore si sente dentro le opere proprio grazie alla capacità di Fantini di collocarlo, collocando se stesso, all’esterno della scena, come se aprisse delle finestre mostrando e indicando al pubblico la veduta di fronte, viva e intensa perché guardata da protagonista e al tempo stesso da regista, come se facendo un passo o allungando una mano si potessero toccare le foglie, bagnarsi con le onde, o cogliere i fiori delicati e colorati dell’opera In fondo al giardino.
Forse è per questo che preferisce non introdurre figure umane perché l’umano è colui che guarda, metafora del mondo moderno in cui spesso ci si ritrova ad aver bisogno di una guida, di un sollecito invito a soffermarsi e apprezzare ciò che si ha davanti e che spesso sfugge nella velocità della vita quotidiana, lasciando l’uomo a volte indifferente davanti alla bellezza, quella più genuina e naturale, ben diversa da quella effimera dell’esteriorità apparente che è diventato un imperativo esistenziale.
La natura diventa scenario e palcoscenico senza attori, dove chiunque può scrivervi dentro la propria commedia, la propria storia, i propri ricordi, quelli suscitati da Un filo di luna, in quelle fasi in cui si è sollevato lo sguardo e si è interrogato l’astro per avere risposte a domande a cui non si riusciva a dare un senso, per ricevere soluzioni a vicissitudini di cui non si riusciva a trovare il bandolo nella vita terrena. E ancora, Mi inebrio d’autunno, ricordo di vendemmie, di acini rubati durante una gita in campagna, di corse lungo le strade sterrate con il golfino sulle spalle perché l’aria fresca della nuova stagione arrivava a spazzare via i colpi di coda dell’estate appena conclusa. L’unica opera in cui pone l’uomo al centro della scena è Io e il mare, ma lo raffigura di spalle, nascosto per lo più dalla spalliera della sedia e quasi in trasparenza, come se non fosse importante se non nel contesto delle emozioni, come se quell’uomo potesse essere l’Uno, nessuno e centomila di pirandelliana memoria, come se potesse essere lì o in qualunque altra parte del mondo. Sperimenta e utilizza materiali corposi, come sabbie, terre e segature che gli sono necessari per rendere al meglio le superfici e le profondità dei suoi emozionanti lavori.
Dipinge da sempre Giancarlo Fantini, ma è solo dal 1994 in avanti che mette l’arte al centro della sua vita, iniziando a esporre le sue opere in molte mostre personali e collettive in Italia e in Europa. Nel 2003 fonda l’associazione ArteAdAronA, di cui è presidente; Ex docente di Botanica ed Ecologia ha messo la natura al centro del suo percorso artistico e del suo impegno quotidiano verso l’eco-sostenibilità degli ambienti.

Inaugurazione Personale ‘VENT’ANNI DOPO’ (Silvana Pirazzi, agosto 2014)

La mostra personale di Giancarlo Fantini nello Spazio Arte ad Arona è un appuntamento annuale con quanto di più positivo ci sia per l’uomo: la bellezza, la libertà, l’amore, che si fanno forma, colore e soprattutto luce.
A 20 anni dalla decisione di dedicarsi sistematicamente alla pittura, il cammino di Fantini brilla ancora e sempre più di luce.
Certo, tecnicamente possiamo ricordare le sue esperienze giovanili, quando usava il bianco perché appunto dà luce. E dare luce alla tela è il fine di ogni pittore, anche senza scomodare le esperienze impressioniste.
Ma oggi chiediamoci quali siano i motivi affettivi e psicologici per cui egli ricerchi con tanto amore la luce. Perché da sempre la luce è un universale antropologico, il simbolo, la summa di tutto ciò che v’è di buono nell’esperienza terrena dell’uomo. Il divino è luce, la luce è calore, la luce è libertà. Anche senza ricorrere alla filosofia platonica, col mito della caverna in cui gli uomini comuni sono rinchiusi, privi della contemplazione del sole della verità, pensiamo ai modi di dire quotidiani, che al linguista rivelano più di un trattato i fondamentali psicologici: quando uno va in galera, privato della libertà, finisce al fresco o in gattabuia.
La depressione è il male oscuro. Quando si perde la speranza si vede nero, come si è neri di rabbia, come è nero il mantello della morte.
Il diavolo stesso nell’iconografia tradizionale è color nerofumo. E’ tanto vero questo assunto, che anche una poesia come Pianto antico del Carducci, solo in apparenza elementare, in realtà un vero e proprio trattato di cromopsicologia, fa del contrasto tra luce = colore = calore = amore // buio = nero = freddo = morte il suo vero nucleo tematico.
La libertà: l’arte è dunque anche per Fantini lo spazio della libertà, il luogo ove finalmente il suo animo, per natura ostile alle convenzioni, al già visto, al già detto, si purifica e si apre al mondo del possibile. Già un paio di anni fa, in questa stessa sede di Spazio Arte, abbiamo osservato il carattere metafisico dei suoi paesaggi: assenza della figura umana, tratto definito, perfezione immobile, inondata di luce diffusa che esalta il colore. Scorci urbani e linee architettoniche, ma anche spazi vegetali dove dominano le tinte delle terre, dei cieli, delle acque e delle piante. Ma non ci siamo soffermati sul senso psicologico di questa assenza, di questa fissità. Nella pittura metafisica tradizionale l’immobilità apre al tempo del divino, dell’oltre accessibile a pochi, ove l’uomo può solo contemplare.
In Fantini invece, che pure proviene da un percorso di contemplazione della natura, come abbiamo visto all’inizio della sua produzione artistica (ed effettuato per giunta con l’occhio anche dell’esperto botanico per via della sua professione), oggi lo spazio immobile e privo di attori umani diventa la scenografia ideale, dove tutto torna a essere possibile, dove l’individuo, escluso dalla stanza dei bottoni in un mondo kafkianamente lontano, assurdo e incomprensibile, torna alla sua primordiale dignità di attore, di co-creatore accanto e insieme alla divina Intelligenza, secondo i principi di buon senso, di energia e d’amore. Lo spazio vuoto, da luogo sovrumano, diventa ora il presupposto di un nuovo umanesimo, il salotto dove la persona torna a ricordare chi era, e può ristorarsi sognando una dimensione ancora possibile. Non è un caso che io abbia qui sottolineato la figura dell’uomo giardiniere, poiché anch’essa fa parte degli universali antropologici, come insegnano la Bibbia e la cultura mesopotamica in generale, che vedono l’uomo proprio come colui a cui il Creatore affida l’Eden in custodia, nel segno della scelta libera e responsabile. Poiché l’uomo, come dice il beato Antonio Rosmini, si realizza nella libertà.
La generosità: nel cuore dell’artista Fantini non c’è spazio per la negatività. Sentimenti come l’invidia, il calcolo, l’egoismo, l’opportunismo non gli appartengono. Né peraltro è disposto ad aprire le porte del suo mondo a chi questi sentimenti coltiva, e spesso il settore dell’arte ne pullula. Il suo mondo accoglie chi è come lui, ovvero chi cammina non guardando indietro per contare di quante lunghezze supera gli altri, ma guardando avanti, verso una luce più pura, verso un orizzonte un po’ meno ristretto. E se si volta indietro, state pur certi che lo fa per tendere la mano a chi avrebbe occhi per vedere, ma non il coraggio di guardare.
E di farsi guardare. La presenza qui oggi in queste sale di alcuni altri artisti che espongono accanto a lui ne è la prova. L’invito a Claudio e a Patrizia è un canto d’amore e d’amicizia di Fantini artista e uomo, è una mano tesa da chi ha fatto più strada a chi si è messo in cammino più tardi o finora ha camminato in altre direzioni, in altri luoghi, in altri ambienti. “Vieni con me” è la frase più commovente che un uomo possa sentirsi dire da un altro uomo: è l’invito fraterno a entrare in un mondo nuovo, nel cuore dell’altro.
Ed è il messaggio più forte di pace e di speranza. La bellezza salverà il mondo, e l’arte è capace anche di questo.

Inaugurazione Personale ‘VERSORIENTE’ (Silvana Pirazzi, agosto 2013)

Ogni anno Fantini coccola la comunità aronese con la sua personale estiva, che quest’anno ha un titolo tanto veritiero quanto suggestivo: “Versoriente”. Il 2013, nonostante non sia ancora finito, è già per il Nostro un anno molto importante, sul quale occorre dare qualche ragguaglio, perché anche il titolo della mostra acquisti tutto il suo senso: oggi Fantini festeggia i 19 anni di impegno nell’espressione artistica, si dedica per la prima volta alla scultura, porta ben quattro tele a un evento mondiale come l’esposizione di arte contemporanea di Hong Kong, la più importante mostra d’arte del continente asiatico.
Dopo quasi quattro lustri di lavoro silenzioso, ma non troppo, di perfezionamento paziente, ma soprattutto di ricerca e di pensiero, tra tecnica e messaggio che caratterizza l’opera d’arte, è il momento per Giancarlo di raccogliere i frutti, pieni e maturi, che vediamo davanti ai nostri occhi, nel segno della condivisione. Ecco infatti una delle parole chiave che Fantini ha della visione artistica, ma anche e soprattutto dei rapporti umani.
Fantini si sente, si è sempre sentito, intimamente parte del Creato, come già rilevano i suoi lavori passati, con uno spirito (come già ho avuto modo di dire) dionisiaco, ma il suo cammino sta mostrando i segni di un superamento anche di questa visione, che chiamerei di un panismo primordiale. In passato l’elemento umano era relegato ai margini del messaggio: il lago mostrava sì la barca, il campo sì l’intervento dell’agricoltore, ma non erano loro il centro del messaggio. Guardate ora, invece: l’elemento naturale c’è, e non potrebbe essere altrimenti, ma l’uomo, pur in maniera felpata, esce allo scoperto. Il grappolo infatti, che domina maestoso, gigantesco, rubicondo, è un inno alla mano dell’uomo, che aiuta la natura nell’opera di creazione, di ri-creazione, di rigenerazione; il ritratto è uno sguardo d’amore sui simili, con cui egli condivide la fatica del quotidiano, ma anche e soprattutto la gioia della contemplazione del bello.
Equilibrio, positività, ottimismo di fondo sono infatti le parole ancelle di “condivisione”: Fantini in fondo, nel suo silenzio, espresso nelle tele che restano metafisiche, sospese, immobili pur nel loro ritrarre il movimento, sa comunicare, arriva al pensiero, tocca il cuore, suscita emozione. Avete infatti notato? Egli cerca di ritrarre il movimento, come dimostra l’onda che ci ha accolti, ma il risultato è altro da quello che ci si aspetterebbe.
Osservate l’onda, che accoglie all’ingresso: è palpabile, schiumosa, par quasi di udirla sciabordare, ma… è “fissa”.
Perché? Chi conosce Fantini già lo sa, ma per chi non lo conosce sgombriamo subito il terreno dalla più banale e falsa delle spiegazioni: non è perché non sarebbe capace di riprodurre il momento del moto scomposto degli elementi.
Il fatto è che il messaggio che esce dal suo pennello, ovvero la sua intenzione comunicativa, non è questa: il messaggio è così forte, che trascende la stessa volontà del pittore. Egli in realtà è uno spirito contemplativo: coglie sì il moto della vita, nella quale si immerge in tutta pienezza, quella pienezza che solo l’artista può raggiungere, anche lasciandosene per certi aspetti travolgere (è sempre l’onda che ce lo dice: l’acqua, elemento naturale di Giancarlo, par quasi lambire lo spettatore, ma in realtà è al pittore che parla, è lui che cerca di abbracciare, è a lui che nell’estasi della produzione l’elemento si raccontava. Ma quando il pittore consegna al fruitore della sua arte la materia rielaborata da lui, non è il relativo, il momentaneo, l’effimero, l’attimo che vien fuori dalla tela: è piuttosto l’universale, l’eterno, che è immutabile anche nel moto.
In Fantini si ravvisano le tracce del divino, che parla nel silenzio metafisico, che è la forma più sublime di comunicazione. In esso si dicono infatti le verità ultime; in esso il relativo, l’effimero, il quotidiano trovano la loro piena e più compiuta giustificazione. Ecco, tutto questo sostiene e informa la pittura di Fantini, che del divino ha anche un altro tratto, il più emblematico: l’amore. È una pittura d’amore, la sua. Egli è un generoso, capace di donare in un mondo avaro di sentimenti, e sa trascinare lo spettatore nel fascinoso vortice del suo affetto.
L’arte di Fantini non va osservata solo con la mente sveglia, ma anche ascoltata con il cuore aperto, senza pregiudizi. È un’arte che sussurra, non grida; è un’arte pulita ed elegante (perché l’eleganza interiore è un altro tratto distintivo di Fantini pittore, professionista, persona); un’arte intellettuale e signora, e questo non la facilita in una società avvezza agli urlacci scomposti; ma è anche un’arte che non vuole parlare alle masse, con cui il maestro non ha nulla a che spartire e che comunque restano escluse dal sentimento dell’universale metafisico.
Credo che sia stato proprio questo aspetto della pittura di Fantini a piacere così tanto a chi gli ha proposto l’esposizione a Hong Kong: non a caso l’oriente è il luogo della contemplazione per eccellenza, la meta del ritorno a se stessi e al divino, il luogo della nascita del sole, che del divino è ipostasi antropologica, il punto cardinale cui anche i nostri più antichi templi pagani, le nostre più antiche chiese cristiane erano volti: segno che là guarda tutta la nostra civiltà.
Abbiamo detto che per la prima volta quest’anno Fantini si è dedicato a una diversa espressione artistica: la scultura. Questo evento si associa strettamente con la mostra a Hong Kong, perché nessuna delle due novità è nata per iniziativa di Fantini.
Nel ventennale del suo cammino, finalmente arrivano le soddisfazioni: è stato richiesto, invitato, cercato; in un mondo difficile come quello dell’arte e del relativo mercato, la chiamata, la commissione sono l’unico segno attendibile dell’apprezzamento di un artista.
Per il 150° della scoperta delle acque termali di Bognanco, ha creato così la scultura “Acqua per il corpo e per lo spirito”, il cui titolo è stato ispirato dalla scritta “Fuer Leib und Seele” presente nel monastero tedesco che ospita le spoglie di Carl Orff. Si tratta di una fontana di ferro, composta da coppelle a forma di fegato, sette come i chakra, attraverso cui l’acqua del luogo, utile al corpo, cade in un bacino a forma di rene, emettendo mentre zampilla un dolce suono che attraverso l’udito solleva lo spirito.
La fontana gli è stata commissionata dal comitato per i festeggiamenti, che voleva lasciare nei decenni un segno importante, significativo e duraturo. Di fronte a questi riconoscimenti di valore egli potrebbe adagiarsi sugli allori, ma non ne è il tipo: artista dentro, dimostra nei fatti che per lui l’arte non è un acquisto effettuato, una meta raggiunta, uno status acquisito una volta per sempre. Infatti anche questa personale 2013 presenta alle pareti lavori del passato, che come un flash-back, un magnifico amarcord, servono a dare un colpo d’occhio sul cammino che l’ha portato fin qui, ma anche tante, tante opere nuove, immagini di quel mondo che sempre lo esalta, lo stupisce, lo commuove, lo ispira; immagini che poi egli, dopo attenta riflessione, dopo amorosa disamina e accurata rielaborazione, riconsegna allo spettatore ripulite dalle scorie delle passioni e per questo ancor più in grado di emozionare.

La vocazione e l’impegno artistico in Giancarlo Fantini (Anonimo, e-mail 2012)

Confesso che non fu per me una grande sorpresa, poter vedere in anteprima le nuove opere di Giancarlo Fantini perché era in qualche modo predestinato.
Fu semmai la conferma che quando esiste una virtù, basta averne la volontà per affermarla nella vita.
La sua è una storia semplice fatta di vocazione ma anche di un impegno artistico che va oltre la misura consueta e lo trascina dentro il suo mistero con una forza irresistibile.
L’artista Fantini è predisposto a simboleggiare la natura in cui vive.
Egli scandaglia la realtà filmando oasi della più pura essenza figurativa in un insieme di luci ed ombre che sottolineano l’ampiezza degli spazi illusionistici di un colore a tratti irreale.
La versatile ispirazione che lo guida nella sua operosità pittorica, gli consente di accostare, esaurientemente, alla poesia della natura, la forza della sua Creatività, come testimonianza esistenziale.
Emozioni, sentimenti, fantasia, vengono accolti ed elaborati in meditazione, ed infine espressi con una maestria tecnica che non fa mai da freno all’immediatezza del linguaggio, prerogativa di una sensibilità artistica non comune.
Giancarlo Fantini, artista della natura, è un romantico. Quello che riporta sulla tela è un mondo incontaminato. La sua è un arte che si coniuga con il paesaggio, rievocando la fenomenologia dei caratteri atmosferici: la pennellata segue il movimento desunto dal vento, il cielo è limpido e illuminato dai bagliori di una luce primigenia.
Attimi fugaci sono resi eterni dalla cura della sua attenzione pittorica.
La luminosità si posa su ogni essenza descritta, assumendone e delineandone la consistenza materica, dona volume e spazialità tramite la purezza descrittiva del tratto.
La veduta non è immaginata ma vista, vissuta, diventa concretizzata e trasformata da una raffinata sensibilità che la arricchisce di nuove ed elevate connotazioni.
E’ una pittura brillante, nitida, intrisa di infiniti chiarori, accese tonalità cromatiche e realismi esistenziali: l’intensità del “saper guardare” è raffigurata in tutto il suo silenzio, i tramonti sembrano accadere in questo istante, mantengono tutt’ora le contrastanti e ricche sfumature trascorse.
Fantini ritrae con estrema potenza descrittiva la minuziosità naturalistica, per risalire dal particolare all’universale.
Nella sua concezione artistica egli sottolinea il legame atavico preesistente che, da sempre, lo compenetra al creato … il mondo … il cosmo, l’energia naturale, le sottili reti dell’esistenza.
Tutto ciò lo circonda e lo entusiasma da “uomo vitruviano” ponendogli policromatiche riflessioni esistenziali.
Egli riesce nell’intento di donare vitalità all’opera d’arte e se riesce a farlo è perché rivolge la sua attenzione al mondo che ci circonda con animo libero e percettivo.
Riesce pertanto a colmare la mancanza di profondità che si è creata nella nostra epoca.
Profondità di espressione , di considerazione e di rielaborazione sensoriale.
Indice tutte queste di maturità e consapevolezza del proprio essere , visto non come entità assoluta e separata ma come parte di un universo pulsante.
Il fascino maggiore di questi lavori, di cui Fantini è interessante interprete, è ” l’elemento acqua”, dove l’acqua è elemento proprio riflettente, riflettente in tutti i sensi, è un pò quello che anche Monet cercava a Venezia, quella lastra di riferimento speculare non speculare, che è proprio l’acqua…
Perché quando un uomo si osserva riflesso nella superficie mutevole dell’acqua, o nella pittura,in qualche modo guarda dentro se stesso.

L’essenza della natura in Giancarlo Fantini (Giuseppe Possa)

Giancarlo Fantini trae maggiormente ispirazione dalla poesia della natura, dalla “musica” di quel mondo circostante in cui vive e opera, in qualità di docente di botanica ed ecologia o come consulente della progettazione e manutenzione del verde. Le delicate, e per certi versi metafisiche, composizioni che dipinge sono rese con le raffinate cromie della vegetazione e se ricorrente è il tema del paesaggio – concepito come una soglia fra visione realistica e sublimata, rappresentata da una riflessione sul senso trascendente del creato – non disdegna neppure, in un linguaggio ampiamente comunicativo, l’inserimento di figure. Queste appaiono in una loro trasformata energia interiore, per cui certi dinamismi sinuosi, con cui l’artista completa le composizioni, diventano simboli dei contrasti umani che si acquietano di fronte alle forze primigenie del cosmo.
La scelta cromatica, poi, è più che curata; infatti, ogni soggetto appare come un dipinto emerso dal profondo, che rivela le emozioni del pittore nell’abbandono magico del momento creativo, in cui le sue colorate atmosfere, lo sottraggono e, guardandole, sottraggono anche noi, almeno per un attimo, dalla frenetica vita quotidiana.
Ma come opera Fantini? E’ lui stesso a spiegarcelo: “Generalmente, ai materiali tradizionali, ne utilizzo altri, come sabbia, segature, argille, tessuti, metalli, che spesso prelevo sul luogo soggetto dell’opera, con lo scopo di rendere più consistenti i volumi e le prospettive, sempre nel rispetto dell’ambiente in cui è stata scattata la foto a partire dalla quale, quasi sempre, realizzo il lavoro”.
Se, prima di concludere, diamo ancora uno sguardo ai paesaggi dell’artista, pare di rivivere l’idea mistica, nella quale la natura veniva concepita con emozioni mescolate alla meraviglia per la bellezza dell’universo o per l’angoscia del suo arcano influsso.
Qui, però, le immagini, pure quando non disdegnano spazi e luoghi definiti e riconoscibili, sono dipinte sempre come trasfigurate da uno sguardo subliminale.
Un particolare cenno va fatto per le sue armoniche ricerche sull’acqua, elemento primordiale e prezioso, che egli rappresenta in modo raffinato, in particolare, nei riflessi, nelle innumerevoli sfumature coloristiche presenti nelle trasparenze e nei riverberi.
S’intravede, insomma, nella pittura di Giancarlo Fantini, il continuo cammino che egli intraprende nell’essenza dell’essere umano, della flora e della fauna che gli sta intorno, nella bellezza di un ambiente da rispettare e conservare per le future generazioni.

La poetica di Giancarlo Fantini (Silvana Pirazzi)

Il quadro di Fantini è dunque un’esperienza non solo visiva, ma anche tattile.
Quando lavora, egli abbraccia, tocca, si immerge, gode di questi materiali, con una gioia pura e naïf che egli riesce a trasmettere al pubblico delle sue opere, risultati felici di questo serio ludus esistenziale.
La tela è per Fantini lo spazio privilegiato per un linguaggio puro, privo di sovrastrutture, immediato e ingenuo. Non descrive la materia: dove può, la inserisce. Ma questa ingenuità è ricercata e consapevole, è un mezzo efficace per attingere alle emozioni più vere e profonde. Non è uno sprovveduto, Fantini: è un uomo in continua e golosa ricerca di un senso più profondo, di orizzonti più completi, autentici e appaganti, di un altrove che potrebbe essere qui, dove domina la natura incontaminata, che egli ama appassionatamente e contempla con la mistica di un asceta orientale, di un filosofo, lontano dai rumori del mondo, dal movimento, dalla massa. Per questo motivo si è ritirato a produrre in un piccolo borgo della Val d’Ossola.
Questa ingenuità voluta, così lirica, si esprime anche nel rifiuto consapevole di frequentare accademie e corsi d’arte. Perché? Perché per Fantini tutto è arte: ogni espressione o azione umana tesa a scoprire con occhi nuovi la bellezza nel quotidiano. E’, dunque, la sua arte più che mai libertà e individualità, lontana dai vincoli dell’accademismo.
In questa scelta di autodidassi si esprime la Weltanschauung del pittore: in quanto uomo libero, egli si sceglie uno o più maestri (ed egli ha scelto i più grandi: uno per tutti, Monet, con la sua lezione sulla luce, che si nota soprattutto nei quadri d’acqua, l’elemento favorito di Fantini), e poi li adatta al suo spirito, alle sue necessità espressive, dimostrando in questo notevole gusto e personalità.
Sì, può piacere o non piacere; certo è che egli è stato serio e onesto nel suo percorso d’arte e di ricerca, e lo dimostra il salto qualitativo delle sue opere: basti vedere il “Gioco d’onde” del 1999, accanto ai quadri più recenti.
Inoltre egli è artista in quanto ha un messaggio, anzi due, forti e positivi, da comunicarci. Da una parte la necessità di risveglio dell’uomo dalla sua condizione di dormiente, in un grigiore che intride tutta la quotidianità, se vissuta in modo passivo e inconsapevole. Anzi, proprio questa passività aliena l’uomo dall’ambiente che lo circonda; il quale, se guardato con occhi nuovi, come fanno le opere di Fantini, torna a mostrare la sua anima e ad accogliere la persona. Questo è il messaggio e questa è la missione dell’artista, e nella fattispecie della serie di foto del 2010: da “Come fossili” a “Vortice”, passando attraverso “Risveglio”, “Contemplazione” e “Creazione”. Qui l’uomo, alla fine di un percorso di riappartenenza, si fonde consapevolmente con quel creato che egli stesso ha contribuito a ri-conoscere e a in-formare, ossia a dargli forma.
Dall’altra parte, come secondo messaggio, vi è il richiamo alla natura, alla pace, alla lentezza del godimento che coinvolge tutti e cinque i sensi. E’ egli un esteta gaudente? Sì, anche, ma non solo, perché non è monodimensionale. Il suo estetismo è l’essenza della vita dell’uomo, la profonda nostalgia del paradiso perduto, che egli contempla in un’anamnesi metafisica, ovvero in una sorta di ricordo platonico, non intellettualistico ma intuitivo. Per questo i suoi paesaggi sono caratterizzati da un’atmosfera metafisica, non verista/realista: immobile fissità solitaria, tempo sospeso che è il tempo dell’estasi contemplativa (non a caso in greco “ek-stasis” significa “stare fuori”, dal flusso del tempo quotidiano), assenza della figura umana o animale, che danno il movimento, che anzi sono movimento.
Emerge così la cifra del suo rapporto con la natura, che non è ambiente, sfondo della vita di un gruppo o di una specie, come è nella concezione antropocentrica, ma è essa stessa una creatura senziente, con cui Fantini, e l’uomo come Fantini lo concepisce, arriva a intrattenere un rapporto privilegiato. E la natura è a sua volta un unicum, una donna che guarda all’artista come all’amante favorito. C’è molto della poetica dannunziana in questa concezione, del D’Annunzio di “Stabat nuda aestas”, del D’Annunzio cioè non a caso più metafisico e sensuale a un tempo.
Bravo dunque Fantini nei paesaggi, mentre alla ritrattistica si applica solo in certe occasioni. Quali? La risposta emerge dal suo storico. Come si è capito, egli è un artista dalla schiena dritta, non un artigiano, dunque non crea su commissione, ma sotto l’impulso dell’ispirazione. Ecco dunque che i volti dei suoi rari ritratti appartengono a persone che a vario titolo hanno colpito il pensiero artistico del Nostro. Perché nella sua pittura Fantini ha lo straordinario coraggio di mettere a nudo se stesso, senza paure e senza reticenze. Una scelta che costa molto, come tutte le utopie quando vogliono essere messe in pratica, ma che da sola distingue chi ha qualcosa da dire da chi non l’ha.
Quando e come opera Fantini? E’ interessante notare che egli dipinge in solitudine, perché “l’intimità creativa non può essere pubblica, e l’opera d’arte, pur fatta da mani umane, non è solo un prodotto manuale”, ma la testimonianza concreta di un movimento, di una passione dell’anima. Pittura dunque del cuore, atto d’amore che si fa forma, colore e luce. E, come ogni atto d’amore, si consuma nel segreto della stanza più interna, e solo i frutti, figli o quadri che siano, si mostrano in pubblico.
Pittura metafisica perché coglie dunque l’anima, l’essenza oltre l’apparenza fisica, degli elementi della natura, di un’umile foglia, dell’acqua di un torrente, di un paesaggio ligure, toscano, provenzale. E questo tipo di pittura richiede una riflessione successiva all’atto visivo, che non è mai atarassico.
Mi spiego: Fantini osserva, visita i luoghi, anche più volte, per conoscerli a fondo. Ma questa osservazione non è priva di turbamenti, di emozioni, di, chiamiamole così, “scorie emotive”, che coprono in maniera anche significativa l’essenza degli elementi costitutivi del paesaggio. In queste condizioni dipingere non sarebbe più giungere a conoscere e a contemplare l’essenza: sarebbe piuttosto caricare gli elementi dei risvolti dell’ego. E non è questo che Fantini vuol dare ai suoi fruitori. Ecco dunque spiegata l’operazione che compie, di fotografare gli ambienti naturali per poi ritrarli in studio in un secondo momento, quando, decantato lo spirito, depositate sul fondo le scorie, l’artista può finalmente contemplare ciò che la natura ha da dire, non ciò che egli vuol far dire a essa.
Qualcuno gli rimprovera di, agendo così, mettere poco di se stesso nei suoi quadri. “C’è più bisogno del tuo ricordo, non della perfezione. C’è più bisogno della tua interpretazione del reale, c’è insomma più bisogno di te”. Significa questo forse che nella pittura in loco, fatta sull’onda delle emozioni o interpretata nel ricordo, c’è più dell’autore rispetto alla pittura decantata, metafisica? Non credo, non sono d’accordo: sono due ricerche diverse, ma ambedue in grado di gettare una luce sull’interiorità dell’artista: la prima, quella emotiva, sul suo sentimento; la seconda, che è poi quella di Fantini, sulla sua visione del mondo e sulla sua utopia. Scusate se è poco…
Ma è nel vero quel qualcuno, quando dice che non occorre la perfezione per dar qualcosa agli altri. Tuttavia bisogna ricordare che Fantini non vuole semplicemente “dare qualcosa” al fruitore: egli ha le idee ben chiare su cosa vuol dargli, ed è, come abbiamo detto, l’anima degli elementi. I quali in natura sono distinti, individuati: una cosa non è uguale a un’altra; una foglia non è uguale a un’altra, pur della sua stessa specie. Un uomo è forse uguale a un altro uomo? E allora in questi casi la perfezione è fondamentale, per comunicare al fruitore immediatamente qual è il soggetto ritratto. Un albero, non quell’altro. Ecco a cosa serve la fotografia. La macchina fotografica è uno strumento che apre la strada all’arte del pennello, senza sostituirlo, se non in alcuni casi pienamente giustificati.
Ad esempio, sulla scala alla fine della mostra vi è un tappeto di foto floreali, scattate nel momento di massimo splendore degli esemplari, che abitano il giardino urbano dell’artista. Anch’esse nascono da quest’idea di assoluta individualità dei viventi: un fiore non è uguale a un altro, e nemmeno a se stesso quando fiorisce una seconda volta, nella prossima stagione di rinascita. Ognuna di quelle immagini è un’opera d’arte, perché unica e irripetibile nella storia del cosmo. Come si fa a non leggere in questa concezione filosofica Eraclito di Efeso, quando dice che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume?

La poesia di Giancarlo Fantini è la pittura (Anonimo)

Dice Goethe “…il linguaggio comune e’ appena bastante per capire e comprendere poichè con esso indichiamo soltanto rapporti superficiali.
Non appena si parla di nessi piu’ profondi ci si deve servire di un altro linguaggio: il linguaggio poetico “.

La pittura è poesia senza voce: la poesia di Giancarlo Fantini è la pittura.
Raggiungere questi risultati non è da tutti: Giancarlo Fantini appartiene alla schiera degli autori scelti.
L’ho saputo andando a vedere “Viaggi, miraggi, paraggi“.
Il viaggio é metafora della vita; se poi, esso è vissuto, come nel caso dell’artista Giancarlo Fantini, come luogo di scoperta ancestrale, luogo non luogo, in cui s’intrecciano desideri, sogni, miti e leggende antiche e sempre nuove ecco scaturire poesie dipinte, vive, in movimento; le guardi… ti tuffi e ti trovi a volare su un campo fiorito, su prati di erba scossa dal vento.
La tempesta silenziosa, l’irruenza del verde, dei colori ti da l’idea della spontanea e genuina rabbia di voler ritornare ad esser liberi, di scrollarsi di dosso le etichette ed i costumi.
Giancarlo Fantini è uno di quegli artisti per i quali vita reale e arte si fondono in un unico precipitato di esistenza, in un dualismo sinergico, indissolubile.
È curioso, la prima impressione, di fronte ai quadri di Giancarlo Fantini , è che la natura ci inviti a tuffarci dentro.
Tale è il formicolio della vegetazione, tale la presa persin voluttuosa, dei campi di grano, degli alberi, del paesaggio fascinosamente prensile, che si vorrebbe entrare in simbiosi con un eden ritrovato.
Ci attrae, cioè, l’aspetto sensuale e insieme dinamico di una natura che ci appare rigogliosa e vitale, densa di umori, inglobante e avviluppante lo sguardo e i sentimenti.
Tutto sorge davanti a noi con la freschezza di un’improvvisazione tumultuosa.
Ne siamo avvinti.
Poi, guardando e riguardando, ci si rende conto che l’esplosione della natura nasce da qualcosa di più profondo: di organico, quindi di assimilabile con la ragione.
Non si tratta di un pur gioioso ed estemporaneo post-impressionismo discendente da Monet: le motivazioni stanno nella nostra stessa struttura fisico-psichica, nei gangli nervosi, nei filamenti cerebrali.
Ogni quadro, e quindi anche ogni particolare della pittura, si riferisce ad un nostro modo di ritrovarci nell’ambiente che ci circonda: noi come elementi costitutivi della natura, quindi equiparabili biologicamente alla vegetazione, agli alberi, al paesaggio.
Giancarlo Fantini, da questo punto di vista, in ” Viaggi, Miraggi, Paraggi” non ha fatto che buttarci in quella natura cosicché potessimo accertarci della nostra più intima identità.
Ecco il punto fondamentale: per la pittura dell’artista aronese come, in linea generale, per tutte le creazioni del nostro tempo, essenziale è la testimonianza di una “verità” che chiamerei appunto biologica, in quanto rispondente ai caratteri organici di ogni struttura di vita.
I parametri con cui un tempo si giudicava la bellezza sono (o ci appaiono) consumati.
Non sappiamo se la cosiddetta armonia classica conservi il suo valore in un tempo così nevrotico e convulso come il nostro, dove l’artista è un nomade alla ricerca di qualcosa che, continuamente, rincorre e gli sfugge.
Cerchiamo nuovi approdi alla nostra sete di conoscenze.
Uno di questi è proprio il raffronto, che può diventare persino drammatico, tra il nostro fragile “io” e l’ambito della natura che ci avviluppa.
Fantini ha cercato, appunto, di immettere sè stesso nella natura che dipinge.
Ci ha innestato il suo piglio sentimentale ma anche la sua forza organica primaria, tutte le sue sensazioni, tutti i suoi pensieri, tutto il suo dna, i suoi cromosomi.
Lo percepiamo subito: ed è già questo un segno di valore.
La natura talvolta ci appare nei suoi connotati ben riconoscibili: alberi e fiori, campi e nuvole, terre e acque. Essa ribolle all’interno di una vegetazione che si apre prepotentemente allo sguardo avido.
Ma, nel contempo, l’occhio sembra avvicinarsi e penetrare all’interno di quel groviglio di forme: aggregarsi a tal punto da perdere il contatto con quella che noi consideriamo “la realtà delle cose”.
La pittura si fa quindi (ma il termine è errato) astratta: nel senso che si fa rappresentazione di un intrico che diventa, inevitabilmente psichico.
Sta qui il fascino di questa pittura.
Essa riflette un mondo esterno (quello che vediamo continuamente davanti a noi) e, nello stesso tempo, è il tramite di un viaggio profondo nel subconscio, laddove pulsa l’aspetto più organico della vita.
Quasi senza che ce ne accorgiamo, l’elemento naturalistico si scioglie, si dissolve: o comunque sfugge nella sua riconoscibilità ai nostri occhi…
In “Un amore di prato” fiori viola danzano nel magma pittorico di un prato in una sorta di danza dionisiaca.
All’improvviso in ‘”Un metro quadro di lago” luce e acqua si intersecano quasi in chiave cosmica, finché in “Terre di vento” si percepisce quasi il movimento degli atomi in frenetico volo.
Allora noi non “vediamo” più acque o campi di grano: vediamo quello che appunto, c’è dentro o sotto o oltre.
L’immaginazione ci spinge lontano.
Quel che è evidente di prim’acchito è che la pittura risponde sempre, in modo serrato, alla conformazione organica di chi la muove.
La frenesia, l’eccitazione, l’impulsività del gesto: tutto nasce da una personalità ben precisa.
È qui che ci si rende conto di come Giancarlo Fantini rifiuti ogni accondiscenza stilistica, ogni manierismo, ogni soluzione d’accatto.
Là dove ha inserito ogni eco, ogni ricordo, nel suo modo di essere, vorrei dire nel suo genoma.
Di qui la sensazione di una pittura cristallina, fresca, pura.
Una pittura che potremmo dire libera, in quanto è mossa dalla libertà di un uomo che intende esprimere le sue sensazioni, i suoi moti d’animo, e sue emozioni di fronte a quella grande maestra del vero che è la natura. Cosa significhi questo, nella cultura d’oggi, è presto detto.
Abbiamo trascorso un secolo che è stato chiamato di avanguardia, nel senso di un continuo rinnovamento del linguaggio.
Fino a ieri (diciamo: fino a dieci vent’anni fa) pareva che il valore, nella creazione artistica, dovesse identificarsi nella novità delle soluzioni proposte.
Così, ad esempio, la Pop Art ha spazzato via l’Informale, il quale a sua volta s’era sbarazzato del cosiddetto Figurativo. Oggi siamo arrivati ad un esasperato nomadismo, cioè a forme di eclettica spericolata mutazione linguistica. Ma sempre più emerge una necessità: quella di un ritorno alla natura, intesa come simbiosi dell’uomo nell’ambiente. È così che la natura, tanto disprezzata da Futuristi o da Dadaisti o Surrealisti o Cubisti, s’è presa una rivincita: che è tale non soltanto nella pittura, ma in tutte le modalità creative.
Basta quindi con gli scimmiottamenti, con i conformismi, con le furbesche manipolazioni: il nuovo “spirito del tempo” esige che tutto quello che esce dall’artista sia frutto di una verità organica.
Se il concetto del “bello” si è sfaldato, quello del “vero” è sempre più forte.
La pittura deve essere “vera”, il che significa che deve essere quasi un prolungamento della linfa umana, del sangue, della struttura organica.
Secondo questi parametri la pittura di Giancarlo Fantini ha perfettamente le carte in regola.
Essa è istintuale e frenetica quanto carica di vitalità: interpreta la natura e ne ritrasmette i succhi e gli umori; si fa prepotente come un fiotto di sangue che esca da una ferita; riflette i segni e i colori con la violenza dei fenomeni naturali.
Si dota di una capacità di visione ravvicinata, raffigura realtà osservate quasi al microscopio.
Dei suoi lavori, piace la misura diversa del vedere: Fantini dipinge squarci di paesaggio sempre più densi e ristretti, in cui riaffiorano segni e simboli legati a ricordi e sensazioni dell’artista.
Come ispirato da un ingenuo panteismo, l’artista entra nella segreta struttura delle cose con lo sguardo del bambino, di colui che sa cogliere l’incanto con manualità volatile nella distribuzione del colore, ma anche sensualmente tattile nell’uso della tecnica mista, dove i materiali non strettamente pittorici conferiscono spessori plastici e dinamismo cromatico al suo modo di comporre.
Il suo è un gioco di cristalli e di specchi, che avvicina e allontana improvvisamente i particolari, in un continuo rovesciamento di prospettiva: un filo d’erba, la superficie ondulata di un lago, il profilo netto di una collina, si trasformano in frammentazioni di colore, in sedimentazioni materiche, in terrigne increspature della superficie pittorica, che diventa essa stessa sostanza tangibile, tattile, sensuale e trasmette la sensazione di materia del paesaggio che offre a chi contempla l’opera la percezione tridimensionale.
In fondo Giancarlo Fantini resta, nell’oscillazione delle sensazioni, fedele sempre a se stesso.
Possiamo con fiducia credere in lui: per quello che fa oggi e, soprattutto, per quello che farà domani.
Lo testimonia oltretutto, la fiducia di quanti si sono già ritagliati, per la propria casa una fetta di quell’universo naturale che l’artista va costruendosi giorno per giorno, palpito per palpito.
Nonostante e, dopo tante parole sono convinta che la pittura, più ha bisogno di parole, e meno è pittura.
C’è un pensiero di Eugene Delacroix che oggi ha il fascino sinistro di una predizione non ascoltata. Attorno al 1834 egli scrisse: “Il giorno in cui i pittori avranno perduto la sapienza e l’amore del loro strumento, cominceranno le sterili teorie. Perchè non sapendo più scrivere il loro pensiero con forme e colori, essi lo scriveranno con le parole, e saranno preda dei letterati”.
Visto in questa chiave, ciò che ho scritto è quanto mai arduo, e deve evitare assolutamente di sostituirsi alla pittura, che comunica tramite immagini.
Perciò siate soli, davanti a “Viaggi, miraggi, paraggi” armati solamente della vostra sensibilità.
Ascoltate soltanto l’arte.
Datele il tempo necessario, la fretta è nemica dell’arte.
Ascoltate le vostre reazioni davanti alle immagini: emozioni, ricordi, sensazioni. …la comunicazione si attiverà e non sarà cosa vana.

Paesaggi raffinati e colti di Giancarlo Fantini alla Biblioteca Comunale di Pisano (Liviano Papa)

Stagione fertile per Giancarlo Fantini, pittore aronese, legatissimo al suo mondo paesaggistico – vegetativo dal quale trae la linfa per la sua arte colta e raffinata. Giancarlo Fantini è un intellettuale dell’arte, un’icona del vasto Territorio montano e acquatico del Lago Maggiore.
Un interprete del mondo paesaggistico, della sua natura, di quel sottobosco brulicante di minuscoli esseri viventi che esplodono nella loro maestosità e bellezza in età adulta. Sensibile cultore del mondo botanico e della natura, il Nostro Aronese dipana sulla tela mirabili visioni di scenari paesaggistici incontaminati e raggianti di luce solare e Mediterranea.
La sua straordinaria capacità di dialogare con la tela, i colori e il soggetto rappresentato rasenta una rara e sottile filosofia del buon vivere, dell’interagire con il mondo fantastico e sognante della pittura, quella colta, raffinata, intellettualmente alta.
La germogliazione della pittura dell’Artista è la primordialità, l’essenza di interagire, raccontando, il nascere del mondo, dellimmagine, del soggetto. Attento osservatore, meticoloso nella sua esternazione di fare pittura, è affascinante e sa interagire
con diverse espressività e tecniche d’arte. Pittura, immagine fotografica, osservazione, tecnica di esecuzione con una intellettualità che è propria e rara: sono questi gli elementi indissolubili per la nascita del lavoro di Giancarlo Fantini.
E’ questa, stagione fertile per il Nostro Pittore Aronese che lo porta ad esporre paesaggi ricchi di immagini spettacolari con un vasto repertorio di fiori, piante e succulente alla Biblioteca di Pisano; mentre sue opere sono esposte all’agriturismo a Crampiolo di Devero e ha inaugurato il suo atelier aronese, in via Pietro Martire. Non ultimo è stato aperto il nuovo sito (www.giancarlofantini.net) con una vasto repertorio della sua pittura.
L’arte di Giancarlo Fantini, in un percorso affascinante che dall’agriturismo a Crampiolo di Devero alla mostra a Pisano con l’apertura dell’atelier, racconta l’interagire dell’Artista Aronese con il mondo.

Un paesaggista? (Gabriella Mignani)

E’ riduttivo definire Giancarlo Fantini semplicemente un paesaggista.
La sua arte scaturisce da un amore profondo per la natura, da una scelta di vita (è docente di Botanica ed Ecologia), da un bisogno quasi ancestrale, di confondersi con ciò che alla natura appartiene.
“In viaggio con la natura” è infatti il titolo dell’ultima personale dell’artista piemontese, vista a La Spezia nel giugno del 2006: il viaggio è, per lui, non “attraverso la natura”, ma in compagnia di essa, non è porsi al di fuori del paesaggio, ma viverlo pienamente e, solo in seguito dipingerlo, riproporlo a sé stesso e agli altri.
Fantini non vive il fare pittura come restituzione consolatoria (nota giustamente Giorgio Segato), ma nella piena consapevolezza delle grandi perdite, perché da ecologista sincero qual è (e l’onestà dell’uomo e dell’artista è caratteristica saliente del suo lavoro), non può non avvertire che alcune perdite sono irrimediabili, alcune contaminazioni irreversibili e non resta quindi che ricercare ciò che ancora può, nel presente, essere salvato.
Egli stesso, umilmente, riconosce la grandezza del suo maestro, Monet, nel cogliere il paesaggio come se fosse il primo sulla terra. Ma era un paesaggio dell’800, meno complesso, meno contaminato di quelli attuali, anche se Fantini ha la fortuna di
vivere in un luogo bellissimo: quella zona del Piemonte al confine con la Svizzera (Arona, il lago Maggiore) dove strette valli si aprono inaspettate, tra folti boschi di castagni e pini.
E i boschi sono spesso rappresentati nei quadri di Fantini: alberi saldamente ancorati al terreno, ma le cui cime, spesso, sono fuori dalla tela: ancora una volta è la “terra madre”, la natura ancestrale, quella da cui tutto scaturisce; anche noi uomini siamo alberi spesso senza radici e il viaggio non è che ricerca di una terra perduta. Viaggia, Fantini: i suoi paesaggi non si limitano alle sue zone: dipinge la Liguria, ma anche la Provenza con le sue magiche luci e quelle più cupe dell’Europa del Nord.
Il giallo e il verde predominano nei paesaggi boscosi, come nei cieli al tramonto: Fantini è un artista solare; il suo, in fondo, è un messaggio ottimista, non c’è sofferenza compiaciuta, pur nella lucida consapevolezza di una perdita. La sua tavolozza è composta di colori assai luminosi: cadmio, giallo e rosso, cobalto, viola.
Nel miscelare il colore, l’arte di Fantini si estrinseca pienamente: nelle opere più riuscite c’è un’originale costruzione della forma attraverso il colore, che pur non disdegnando il messaggio impressionista o neo impressionista, ne fa comunque una propria, personalissima interpretazione. “Una buona metafora implica una percezione intuitiva della somiglianza nella diversità”, diceva Aristotele, primo assoluto nel concepire il rapporto arte/natura. Ancora attuale nella cultura contemporanea che, quasi per contrapporsi a una visione tecnicistica e iperrazionale del Mondo, tende a formare una concezione della Natura abbastanza vasta da includervi una coscienza ecologica, morale, persino religiosa.
Un artista come Fantini conferma tale tendenza, la fa sua con naturalezza: i suoi quadri somigliano, ma non sono (e questo è quasi scontato per ogni artista che si definisca tale) quei paesaggi: sono un’interiorizzazione del reale, in cui il colore gioca un ruolo primario, sono un mantra che ci trasporta in una natura fuori dal tempo.
Così nel “Bosco di Betulle”, dove gli alberi sono quasi trasparenti, di un rosa etereo, opalescente, che contrasta col terreno di un marrone caldo e rassicurante, mentre il cielo, come spesso, è assente. Sembra quasi, nei dipinti di Fantini, che dove c’è il cielo non possa esservi la terra, e viceversa. Anche nel bellissimo”Primavera a Vernazza”, alberi rosa si stagliano in un verde che non ha confini. Oppure, come nei dipinti più recenti, il cielo è tutt’uno con l’acqua, in uno sfondo indistinto, dove emergono barche blu, ciottoli trasparenti, sassi levigati.
Manca del tutto la figura umana: la si intuisce dietro alcune finestre, dai panni stesi, o nelle rare nature morte, interni di studi abbandonati dai pittori: l’uomo, spettatore e partecipe, si ritira e lascia la natura protagonista.
Fantini saprà ancora dare nuove emozioni, nuove visioni di essa, per chiunque, come lui stesso afferma, “trovi il tempo, e la voglia, per ascoltare, in pace, quell’armonia onirica che è l’essenza primordiale del colore”.

La pittura di Giancarlo Fantini (Angelo Carnevale – 2006)

…i suoi dipinti, come delle finestre aperte sul mondo della natura, manifestano chiaramente l’amore che fa rivivere il connubio indissolubile tra l’armonia dei colori e la bellezza delle cose più semplici come, per esempio, i ciottoli di un corso d’acqua oppure l’ombra di una felce che colpita dalla luce solare proietta un’immagine merlettata simile ad un prezioso pizzo antico.
Notevole è il turbinio di emozioni che prendono forma nelle efficaci sfumature sulle sue tele: sfaccettature di una dinamica personalità pittorica che fa di un esperto docente di botanica un artista del colore.
In generale, è proprio dalla sua attività professionale che scaturisce la vera protagonista dei suoi dipinti: la vegetazione, inserita in policromi paesaggi.
Essa è significativamente raffigurata con una varia gamma di verdi ravvivati dal cielo azzurro e dalla luminosa distesa di fiori rossi e gialli, come nei quadri “Maremma” e “Obiettivo sui papaveri” in cui campeggia una veduta agreste compendiata in mirabili piani di colore e in fasce geometriche con cui l’artista ha creato direttamente l’immagine attraverso le tinte della propria tavolozza. Tale tecnica, senza rinunce verso una propria visione artistica, si ispira visibilmente ad una concezione che fece la gloria del celebre Paul Cèzanne.
Nell’odierna rassegna non sono mancati dei dipinti in cui si è potuto agevolmente osservare il progetto di crescita e d’articolazione della natura che come ogni cosa vivente è soggetta inesorabilmente a modificazioni da parte di fattori ambientali come pienamente espresso nell’opera “Il lavoro dell’acqua e del legno”. Qui un corso d’acqua, in piena libertà, corrode inesorabilmente la base dell’albero che ostinatamente difende la propria esistenza aggrappandosi con forza alla terraferma.
Eloquente esempio di commovente tenacia che culmina nel trionfo della vita nonostante gli insidiosi contrasti tra gli elementi del creato; messaggio chiaro per la realtà umana: il mondo va affrontato con coraggio, determinazione e perseveranza!
Nell’ambito della tecnica, se Vincent Van Gogh eseguì il vigoroso quadro “I covoni” usando come pennello una cannuccia di bambù appuntita per imprimere sulla tela il suo mondo interiore, il pittore di casa nostra, affascinato dal rapporto tra luce e colore, con audaci procedimenti, non ha esitato a dar vita a visioni della natura ricorrendo all’impiego dell’olio con sabbia oppure con segatura come nel dipinto “Vita su una roccia”.
Tale espressione pittorica non costituisce un procedimento semplice, bensì un andamento elaborato che richiede non solo abilità manuale, ma anche chiarezza d’idee per far giungere all’opera maggiore freschezza e luminosità.
Il colore, come elemento essenziale, rivela in lui una ricerca cromatica equilibrata proprio come la sua misurata indole; indole di uomo riservato, dotato di intelligenza analitica e di decisa carica pittorica; carica che sente forte l’eco delle fonti che risalgono all’ impressionismo di Claude Monet.
Nei suoi dipinti, perciò, c’è col proprio mondo interiore un legame più che iconografico e spaziale, una connessione chiaramente simbolica da leggere e interpretare come un vivo richiamo alla purezza della natura.
Il suo stile luminoso è portato, col fluire delle tinte, a sublimare i valori umani parlando all’animo di chi osserva.
E soprattutto in questo consiste la forza dell’arte di Giancarlo Fantini: un’arte che per la sua ricchezza di emozioni vuole giungere al cuore di chi si ferma davanti ai suoi quadri per cogliere un messaggio preciso che non è certamente unico per tutti perché come l’acqua, linfa vitale, prende la forma del recipiente che la contiene, così la sua pittura si mescola con i sentimenti di ciascun osservatore avvolgendogli l’anima in un’armoniosa e personale visione.
Visione che non può che suscitare sentimenti elevati e puri.

Nostalgie dei sensi (Giorgio Segato)

Il paesaggio, la veduta naturalistica sono fin dagli albori del fare pittorico soggetti privilegiati dell’artista, poiché tramite essi egli può esprimere il suo sentimento panico, di appartenenza alla natura, o come gli accade sempre più spesso, di nostalgia di immersione e di partecipazione effettiva alla natura naturans, in un mondo in cui sembra prevalere la natura artificiale e la natura virtuale, con grave riduzione, smarrimento e perdita della nostra conoscenza sensibile sia di ciò che ci sta attorno, l’ambiente, con le sue piante, i suoi fiori, la sua luce, le sue stagioni, sia di ciò che dentro di noi viene elaborato.
Sempre più viviamo sensazioni indotte, descritte, omologate, confezionate con sempre più scadente prensilità e scarsa potenzialità di elaborazione, perché sempre più piatte sono le sensazioni e sempre più povere sono le sinestesie che si sedimentavano nella nostra psiche fin dai primi mesi e certamente anche nel periodo prenatale: voci, tepori, suoni, odori, luci, contatti sapori, colori in miriadi di relazioni gelosamente custodite nella memoria mnestica, la memoria sensitiva, come fonte inesauribile di fasci di ricordi spesso all’origine di scelte, di gusti, di tendenze, di abitudini, di momenti creativi, di ispirazione poetica, musicale, costruttiva.
Varie ragioni rendono sempre più esiguo quel bagaglio, quella dotazione acquisita, che ci accompagna per tutta la vita, prima fra tutte il prevalere, anche nel periodo di gestazione, di esperienze diretta di natura artificiale, le eccessive preoccupazioni ed occupazioni fisiche ed intellettuali con poco dialogo col nascituro e poi le difficoltà del parto, l’allattamento artificiale, la povertà dell’ambiente di famiglia nucleare, le plastiche, l’inquinamento acustico, atmosferico, alimentare.
Questa condizione accresce di generazione in generazione un disagio intimo, una nostalgia dei sensi, una percezione di smarrimento, nel senso letterale del termine, come perdita di consistenza delle emozioni, delle sensazioni profonde: una forte nostalgia di natura alla quale gli artisti rispondono in pittura con il ritorno al paesaggio, alla veduta, ma non più semplicemente come finestra che si apre sul mondo esterno, sguardo mirato, ma come soglia che rimette in comunicazione mondo psichico e mondo fisico, aprendosi ai colori, ai profumi, ai tepori, ai sapori e al tempo stesso proiettando in essi la propria inquietudine, il senso di divario, cercando di recuperare equilibrio, misura, appartenenza.
Non poteva essere altrimenti per Giancarlo Fantini: autodidatta, ma fin da bambino attratto dalla pittura, come lo erano il padre e lo zio, esperto di piante, come docente e come ricercatore; certamente non poteva vivere il fare pittura come restituzione consolatoria, ricerca di una superficiale piacevolezza retinica, ma, nella piena consapevolezza delle grandi perdite per estinzione, contaminazione e per riduzione e ignoranza, piuttosto come luogo dell’ascolto e del confronto delle voci di dentro e di quelle di fuori, luogo dell’espressione più che dell’impressione, del gesto di urgenza narrativa più che del disegno di acquietata descrizione.
E in effetti non solo adotta fin dagli inizi la tecnica cèzanniana del costruire le forme direttamente col colore, nella materia, in modo che le cromie siano trascrizione emotiva e intellettiva diretta, senza mediazione, ma registra vedute e paesaggi come in una sorta di diario di scoperta interiore, non di viaggio, pur scegliendo i luoghi più amati, il lago, le valli, i boschi di betulle, ma anche colline scozzesi e vedute desertiche, approfondendo a volte suggestioni fotografiche, altre volte dipingendo en plein air o nello studiolo, inseguendo emozioni e pensieri che si amalgamano nella veduta, nel ricordo di un esplodere di gialla luce solare o del suo serotino declinare, di un ispessirsi di pieghe d’ombra, o di un modularsi e modellarsi di colori e riverberi al di qua e al di là della soglia, che è la superficie del quadro, nell’animo e nella natura.
E nei momenti più alti ed efficaci del suo fare egli sembra raggiungere un’insperata armonia, sorprendere una speciale felicità cromatica, una magica beltà, che, tuttavia, non sono mai in funzione consolatoria e passivante, ma alimentano nuovi stimoli, nuove inquietudini intime, suggeriscono più approfondite ricerche per avvicinare ed immergere ancor più i sensi nella natura, espanderli in essa, con-fonderli in essa, in un’effusione di luce colore.
E’ proprio sulla luce che si appunta l’indagine attenta di Giancarlo Fantini; le sue vedute evitano il dettaglio, sono sintesi, semplificazioni per campiture luminose a ben guardare più psichiche che naturalistiche, più risonanza emotiva della realtà ed adesione che descrizione.
La semplificazione strutturale del soggetto gli consente di modulare campiture espanse di luce colore con effetti di particolare liricità, di canto delle cromie sovente distribuite in profondità dall’ombra alla pienezza solare all’orizzonte, o al di sopra delle colline.
Significativa attenzione dedica alle stesure dei verdi, dei gialli, dei rossi, dei rosati in variazioni timbriche e tonali fortemente espressive di emozionata partecipazione, come se le scoprisse specchiate nell’anima, sullo schermo della psiche, sul fronte della memoria sensitiva e dell’ispirazione e restituzione poetiche.

La personale del 2000 ad Arona (Simone Dulio)

…un appuntamento ormai tradizionale… tutti i quadri sono ad olio, mentre per alcuni si può notare una forma di sperimentazione artistica attraverso l’uso di sabbia e segatura, soprattutto per rendere l’effetto della neve e della roccia.
Da notare senz’altro un bosco di betulle di grande effetto.
Viene da dire, dopo la visita, che Fantini “sa cos’è un albero”. Il che potrebbe sembrare una battuta di spirito, trattandosi di un esperto di piante, ma sta semplicemente a significare che l’autore da il meglio nella riproduzione della natura, nelle sue varie forma; non solo nella verosimiglianza delle immagini, ma anche nella resa dello spirito che a tratti sembra animare anche la vegetazione. Dai tramonti sul lago alle nostre valli, tocca anche temi più esotici come il deserto…
Al termine della visita, una riflessione con l’autore, che parte da una riscoperta dei classici e continua: “mi ha scritto una visitatrice – perché continui a fotografare? Non ti basta ciò che riesci ad imprimere nella tua iride? Non c’è bisogno dell’esattezza per donare agli altri…forse c’è più bisogno del tuo ricordo, della tua memoria, della tua interiore/profonda/lontana interpretazione del reale…insomma c’è più bisogno di te!”. Alla domanda, risponde che continuerà a praticare l’arte, perché, come dice Compay Segundo, “l’arte vi da la dignità e vi rende il cuore meno duro”.

Il ritmo dei colori e il naturalismo di Fantini (“La Provincia” - Cremona, dicembre 2000)

…Egli fa rivivere nelle sue opere la dimensione emozionale dei ritmi e dei colori della natura, con una padronanza dei segni, dei cromi e delle tonalità.
Il naturalismo di Fantini si sofferma, in particolare, su brani lacustri e montani, su vedute di terre scozzesi, che inducono a nuove considerazioni sui rapporti tra l’uomo e la natura.
Da appassionato ecologista, il pittore ha una visione dei problemi e delle esigenze che sorgono dall’alterazione dell’ambiente. La sua sommessa denuncia, quindi, di tali problematiche appare in sintonia con il gusto di matrice letteraria per un paesaggio di “contenuti”.
L’artista sceglie una inquadratura panoramica (frontale o dall’alto) ed un taglio compositivo centralizzato secondo i tradizionali canoni prospettici.
Dai paesaggi traspira un delicato lirismo, che non prescinde da una lettura in chiave naturalistico-descrittiva delle scene, che prendono forma direttamente dal colore.

Paesaggi dal lago – Centro Culturale “La Fabbrica” Villadossola (Giuseppe Possa)

…I suoi paesaggi, immersi in una luce particolare, creata dagli elementi che l’attorniano: un mondo colmo della forza del creato che rinasce sotto la mano dell’artista.
Non segue le mode del momento , questo valido pittore, i cui quadri hanno soggetti, colti attraverso i moti dell’anima, che riproducono le bellezze che ci circondano e le immagini della sua personale visione della natura. Molte delle opere sono state eseguite lungo il lago Maggiore con sullo sfondo le splendide vedute del Verbano; altre tra brughiere, colline e montagne; qualcuna in pianura o addirittura in località straniere; tutte, però, sanno trasmettere ai fruitori qualcosa di positivo, di sereno; momenti di gioia interiori, colmi, di luci e di colori, che aiutano a superare le sfide continue della vita quotidiana.
Il sottile “narrare” di Giancarlo Fantini, soprattutto con la serie di lavori legati al Vco, i cui siti sono ripresi con linee essenziali, quasi sfuocate, ma impreziosite dalle cromie atmosferiche, porta i fruitori tra insenature e scorci che li trascinano lontano dalla lacerante realtà odierna, dal clamore della gente immersa nei grandi agglomerati urbani, per ritrovare la propria segreta identità di uomini del nuovo millennio.
Pertanto, le rappresentazioni dei luoghi si fissano sulle tele come brani di un racconto che fa parte indiscutibilmente della sua esistenza: un itinerario che finisce per diventare memoriale, in quanto appartiene alla vita, alle tradizioni, agli eventi che legano l’uomo all’ambiente e alla sua cultura. Negli elementi del paesaggio che gli è famigliare, Fantini ha trovato non solo una fonte di ispirazione, ma i mezzi con cui esprimersi e, ciò che più conta, il riflesso delle sue tensioni interiori, della sua aspirazione ad una bellezza che non ha nulla di estetizzante, proprio perché nasce da una sofferta ricerca, legata ad una sorta di desiderio di pace e di tranquillità.

Le mie opere

Tutto il mio lavoro,
anno per anno ...

2021 | 2020 | 2019 | 2018 | 2017 | 2016 | 2015 | 2014 | 2013 | 2012 | 2011 | 2010 | 2009 | 2008 | 2007 | 2006 | 2004 | 2003 | 2002 | 2001 | 2000 | 1999 | 1998 | 1997 | 1996 | 1995 | prima del 1995
NIENTE è come sembra
Mostra personale
Inizio: 31/08/2019
Fine: 15/09/2019

Spazio Moderno
via Martiri della libertà, 38 28041 - Arona (NO)